Ora, riprendendo quanto abbiamo già detto, non vi è una connessione tra inclinazioni personali e lavoro secondo Scheler. Questo perché non possiamo pretendere che esista una sorta di “armonia prestabilita” tra le esigenze dell’oggetto da produrre, i sistemi di fini a cui il lavoro si conforma e le inclinazioni personali di ciascuno di noi. Quindi è del tutto ininfluente se il lavoro è accompagnato dal piacere o dal dispiacere. In ogni caso la situazione di piacere diminuisce sempre quando l’attività è compiuta per dovere. Scheler riferisce della tradizione ebraico-cristiana dove il lavoro era frutto della disobbedienza all’obbligo divino ed alla cacciata dal Paradiso. Ma l’idea dl lavoro come dispiacere in sé è presente anche nella tradizione greca, dove questa era la mansione riservata agli schiavi.
Appartiene invece ai pensatori socialisti, in particolare a Fourier, l’idea che lavorare sia un piacere. Anche Adolf Wagner, un economista tedesco di fine Ottocento, indica il piacere del lavoro come uno dei motivi fondamentali dell’agire economico. Tale piacere però consisterebbe soprattutto nell’essere attivo presente nel lavoro, ed anche nel lavoro come tale e nei suoi risultati.
Scheler invece è di parere diverso. Non nega che ci sia piacere nel lavoro, ma lo ritiene direttamente proporzionale alla sua spiritualità. Con spirituale il filosofo tedesco indica la perdita per l’attività lavorativa di quello sfondo di peso e di fatica. Vediamo la seguente citazione: “Quanto più l’intero complesso delle condizioni che un prodotto da realizzare presuppone, cade in forze oggettive, come nell’industria in macchine ed organizzazioni, nella scienza in strumenti e metodi, nell’amministrazione della giustizia in diritto positivo, oggettivo, nell’arte nei sussidi tecnici e nello stile, tanto più la condizione parziale dell’essere attivo-soggettivo assume carattere di lavoro e anche, tanto più carattere di non piacere” (Lavoro ed Etica, p.73).
Questa citazione di Scheler ci mostra come la sua concezione sia in un certo senso ancora “aristocratica”. Il lavoro manuale sarebbe infatti legato al dispiacere, sarebbe un peso per il libero librarsi dello spirito. Il lavorare appare, in tale prospettiva, legato necessariamente al dispiacere.
Scheler però non è del parere , come alcuni altri critici, che la teoria socialista del lavoro, e specialmente Marx, abbia identificato il lavoro come esclusivo lavoro del corpo. Il filosofo tedesco crede invece che riguardo al problema della produzione spirituale i teorici socialisti abbiano assunto spesso una posizione ondivaga. In effetti, come abbiamo già visto, il “lavorare” così come è inteso da Scheler si riferisce propriamente all’attività fisica, ma da questo lavoro sarebbe difficile trarre concetti come valore o cultura.
Riprendendo l’analisi linguistica Scheler ricorda che vi è nella lingua una precisa distinzione tra artigiano e lavoratore. Il lavoratore, nella convinzione esercitata dalla parola, è colui che senza dubbio lavora in misura maggiore, è colui che segue l’organizzazione pre-data con la sua attività. I verbi indicano secondo il filosofo due casi in si esprime l’attività dell’uomo. Il primo caso è quando l’azione compiuta sembra determinare l’intera vita dell’uomo in seguito all’azione, per cui vi è “il salvatore”, “l’omicida” e “il suicida”. Il secondo caso è quando l’azione vive nel suo svolgersi nel soggetto agente, quindi parliamo del “giocatore”, “bevitore” etc.. Ora il lavoratore di quale di questi gruppi fa parte? Secondo Scheler solamente se un uomo vive per lavorare, allora possiamo chiamarlo “lavoratore”, vale a dire come colui che ordina la propria attività ad un sistema di fini. Attività come quelle dell’artigiano o del commerciante lasciano il posto invece ad una maggiore autonomia che pone un po’ in ombra il “lavorare”.
Inoltre Scheler propone di sostituire la coppia di aggettivi corporeo e spirituale, adoperati in genere per distinguere i vari tipi di lavoro, con un’altra coppia quella di qualificato e non-qualificato. Innanzitutto questa coppia consentirebbe di fornire una distinzione più graduale rispetto alla prima, poiché ci possono essere distinti livelli di qualificazione. Non vi è però, come invece può sembrare di primo acchito, una identità tra le due coppie di concetti; non è detto infatti che un lavoro qualificato sia necessariamente spirituale. Ma quello che preme al filosofo è di evitare una sorta di contraddizione di valore, che si presenta con la coppia corporeo e spirituale.
Riguardo al lavoro la domanda che si pone Scheler è ora quella riguardante il perché dell’azione. Certamente questo perché non può non essere diviso nella domanda riguardante la posizione del singolo prodotto del lavoro all’interno di quella totalità in cui per Scheler va sempre inserita, e quindi nella domanda vertente sugli uomini che lavorano, sulle loro specifiche qualità e sui bisogni per i quali si lavora.
In quest’ottica sorge la domanda: vi è nel concetto di lavoro una indicazione particolare? Ossia, la connessione del lavoro individuale con la totalità oggettiva deve essere conosciuta da parte del lavoratore? Scheler risponde che “se in una fabbrica di macchine un lavoratore sa quale scopo meccanico deve raggiungere la vite realizzata da lui nella totalità della macchina, o se viceversa non lo sa, in entrambi i casi ‘egli lavora alla vite’, così come gli è richiesto. Anzi, se non lo sa, questo sapere non può esercitare alcuna influenza sulla sua attività” (Ivi, p.77). Il lavoro dunque non risente della conoscenza dell’ordine oggettivo entro il quale esso si deve svolgere. Addirittura il filosofo aggiunge che tale sapere sarebbe una sorta di energia intellettuale sprecata. È dunque l’organizzazione del lavoro ciò che conta, e non l’arbitrarietà lasciata ai singoli individui.
In definitiva Scheler afferma che appare assolutamente deleterio che il lavoratore rifletta sul perché del proprio lavoro. In tal modo infatti si promuoverebbe la propria individualità al posto del rimando continuo all’interezza dell’attività lavorativa. Vi sarebbe quindi una sorta di ingerenza impropria di colui che entra nel sistema solo in una parte.
Scheler stesso ammette che ad una tale presa di posizione si potrebbe obiettare che essa si riferisce esclusivamente a lavori che si basano sulla divisione di mansioni, poiché laddove l’oggetto prodotto dipende solo da una persona non può rimanere ignota la conoscenza dei nessi delle parti con il tutto. Ma Scheler non accetta questa eventuale obiezione, perché quando egli parla di “lavorare” intende sempre un lavoro suddiviso. Tale posizione non è ingannevole perché per Scheler il lavoro in realtà non precede mai materialmente la suddivisione.
Ritornando al triplice significato della parola lavoro, cioè a lavoro come azione, come compito e come scopo, Scheler afferma che la divisione del lavoro non riguarda certamente l’azione, la quale non può essere divisa, e tantomeno riguarda il prodotto dell’azione. Ciò che viene diviso è esclusivamente lo scopo: il compito viene suddiviso in singoli compiti. Anche se in ciascun individuo normalmente vi è sempre una distinzione tra scopo e mezzo, questo non significa che si abbia in tale caso una suddivisione del lavoro. Per quale motivo? Ecco come Scheler giustifica tale posizione: “Soltanto quando il cercare e il trovare-intermedio ricevono una regolamentazione obiettiva, con la quale i mezzi diventanofini relativamente indipendenti, e dunque solo quando la divisione dei compiti si è già ulteriormente sviluppata, possiamo parlare di lavoro anche riferendoci all’azione di uno solo” (Ivi, p.80).
Il fine allora, secondo il filosofo tedesco, agisce dall’esterno rispetto al fine individuale. Nel senso che il lavoratore può anche conoscere quale sia la meta del cammino, ma è importante che lui nel suo lavoro proceda solamente entro il tratto di strada che gli è stato preventivamente assegnato. Il fine è dunque qualcosa di oggettivo che determina l’agire del singolo. Il fine in definitiva diviene una sorta di assioma per il lavoro individuale suddiviso, vale a dire che esso viene presupposto senza la possibilità di porlo in discussione nel momento in cui si sta compiendo un cammino intermedio.
Il fine dunque è vissuto per lo più oggettivamente e non soggettivamente. Se infatti nel mondo antico ed ancora nel medioevo potevano esser ancora molti coloro che coglievano ancora l’istanza oggettiva del lavoro sentendola propria, ad esempio i signori feudali, con il passare dei secoli e la creazione di monarchie assolute si assiste secondo Scheler ad una organizzazione verticistica, dove solo il sovrano tiene ancora per sé il senso del tutto. Il fine oggettivo dei singoli viene addirittura interiorizzato nell’istinto dei singoli, vale a dire, i fini soggettivi concorrono a formare inconsciamente l’armonia del fine oggettivo.
Tale è la teoria del Liberalismo inglese, ed in particolare quella della “mano invisibile” di Adam Smith, anche se non citata esplicitamente da Scheler, secondo la quale la volontà di benessere soggettivo dei singoli viene trasformata, appunto da una mano invisibile, nel benessere di tutta la comunità. Nella teoria del Liberalismo nell’attività economica ci sarebbe una sorta di razionalismo immanente, per cui chi lavora per sé solo contribuisce automaticamente allo stato ottimale della società.
Seguendo questa teoria, afferma Scheler, siamo di nuovo tornati all’inizio, ovvero alla coappartenenza di mezzi e lavoro ai singoli. Vi è tuttavia una differenza, il fine infatti non regola il lavorare, ma è insito, per una misteriosa ragione, all’interno del lavorare stesso con una “misteriosa forza cooperativa”. Ma a ben guardare se così fossero le cose ci si troverebbe di nuovo di fronte ad una sorta di anarchia della vita economica, ovvero di fronte ad una mancanza di organizzazione del lavoro. Il filosofo tedesco opta invece per una teoria del lavoro organizzato in sistemi di fini oggettivi che determinino l’agire del singolo.
Ora il problema importante che viene alla luce è quello dei fini oggettivi, o meglio la questione sulla provenienza di questi fini oggettivi: chi è che li pone? Se in epoche ormai passate poteva rinvenirsi in un uomo singolo, investito di una alta autorità, colui che dirigeva l’intera attività economica, con la modernità si è assistito ad un capovolgimento, per cui l’idea del singolo capo pare in contraddizione con tutti i principi di vita sociale. A questo si aggiunge il fatto che le economie dei secoli passati, meno sviluppate delle attuali, credevano in fondo di poter contare su di una sorta di bontà naturale, che si offriva alla loro disposizione. Tale fiducia nei nostri tempi è svanita: i singoli – secondo Scheler – non possono fare un bel niente.
Dove collocare allora la fonte dei fini oggettivi? La risposta di Scheler è il fulcro della sua concezione etica del lavoro: “I fini oggettivi debbono ora essere in tutti gli individui, poiché non possono essere in uno solo; e contemporaneamente debbononon essere in ogni singolo soggetto, poiché debbono pur essere fini oggettivi proprio per questi singoli” (Ivi, p.83).
Tale posizione è una sorta di antinomia, ovvero un’affermazione che mostra in sé principi contraddittori, ma ciò accade solo in apparenza, e l’antinomia formale dà espressione al contenuto della questione sociale. La soluzione del rapporto tra fine soggettivo e fine oggettivo può avvenire secondo Scheler esclusivamente con la consapevolezza del singolo che nella sua attività lavorativa interviene qualcosa di oggettivo. Questo intervento però non è affatto, per il filosofo tedesco, frutto di un’azione misteriosa, ma è solo attraverso una “rigorosa distinzione” che si mostra allo stesso lavoratore.
Per comprendere questo rapporto Scheler si riferisce alla divisione del lavoro, inteso però naturalmente in un altro modo: attraverso la presenza di questi fini oggettivi, presenti nel lavoro di un singolo, non si determina esclusivamente il lavoro di un singolo, ma il lavorare di tutti. Ed è qui che emerge il problema etico del lavoro, perché secondo Scheler, proprio in questa con-laborazione, in questo lavorare insieme è presente il dovere. Vediamo come il filosofo tedesco giunge a questa conclusione: “Accanto al ‘lavorare’ compare perciò, come novità, un dovere di vigorosa cooperazione al razionale perfezionamento dello stato dato, in quanto esso sembra essere il mezzo attraverso il quale i fini, riconosciuti da tutti i cittadini come obiettivamente validi per tutti, ritornano su tutti i cittadini nella forma di una totalità sistematica” (Ibidem).
È proprio nella consapevolezza di tutti i lavoratori del fatto che, seguendo fini comuni a tutti, il proprio lavorare porta ad un miglioramento dello “stato dato”, vale a dire della situazione di benessere generale, che fa intendere il proprio lavorare come un dovere. Qui è interessante notare come Scheler in fondo riprenda le tesi del Liberalismo, il benessere della comunità, per distaccarsene riguardo alle modalità del suo conseguimento. Non è il lavoro del singolo a sé stante che produce automaticamente un miglioramento delle condizioni, bensì l’organizzazione in un sistema oggettivo di fini dell’attività lavorativa di ogni singolo individuo, volto a formare la totalità del mondo del lavoro.